martedì 30 agosto 2016

Pinturicchio, il piccolo grande pittore



Pinturicchio, autoritratto
Bernardino di Betto Betti, meglio conosciuto come Pinturicchio (altri lo chiamano Pintoricchio ma sono validi entrambi i nomi, derivati da “piccolo pintor” per via della minuta statura del personaggio), nacque a Perugia intorno al 1452. Allo stesso artista piacque tale appellativo, tanto che lo impiegò anche per firmare alcune sue opere.
Benardino inizia il suo percorso formativo avanti con gli anni, infatti, si iscrive all'Arte dei Pittori nel 1481. Della sua vita privata non si sa molto. È figlio di Biagio detto Betti e le origini della sua famiglia sono abbastanza modeste, tanto che forse Bernardino inizia a lavorare nella cerchia di Bartolomeo Caporali, come minatore. Dai suoi testamenti, si scopre che nel 1509 sposa Grania, con la quale però convive già dal 1495. Il Pinturicchio ha diversi figli, non tutti da sua moglie, perché ama le donne e le avventure extraconiugali, e la più grande si chiama Clelia.

Negli anni della sua formazione lascia Perugia, per andare a Roma e qui ottiene i primi incarichi davvero importanti: prende parte alla squadra incaricata di affrescare la Cappella Sistina in Vaticano (l’imponente lavoro vede al suo fianco artisti quali il Perugino, Luca Signorelli, Sandro Botticelli, Domenico Bigordi, detto il Ghirlandaio e Cosimo Roselli).
Bernardino Pinturicchio spicca come uno degli artefici della grande stagione rinascimentale di riscoperta della classicità: in effetti sarà tra coloro che si avventureranno nel sottosuolo romano, copiando gli affreschi della Domus Aurea, dando inizio al gusto del revival archeologico e contribuendo alla diffusione delle grottesche. 
Tra il 1492 e il 1494 dipinse l'appartamento di Alessandro VI Borgia in Vaticano, utilizzando ornamentazioni a motivi fantastici, le cosiddette grottesche, cosa che gli valse il biasimo di Giorgio Vasari nelle “Vite”: “…Usò molto Bernardino di fare alle sue pitture ornamenti di rilievi messi d’oro, per soddisfare alle persone che poco di quell’arte intendevano, acciò avessono maggior lustro e veduta, il che è cosa goffissima nella pittura…”.
Pinturicchio e Raffaello
Rientra a Perugia nel 1495 e inizia una serie di opere davvero importanti, come il Polittico di S. Maria de' Fossi (ora nella Pinacoteca di Perugia) e l'affresco di una cappella della collegiata di S. Maria Maggiore a Spello. Il cardinale Francesco Todeschini Piccolomini, eletto Papa Pio III, lo richiama a Siena per dipingere le dieci Storie della vita di Pio II nella biblioteca del duomo. La sua attività senese è davvero vivacissima, perché in contemporanea cura gli affreschi nella cappella di S. Giovanni Battista nel duomo di Siena, le storie della libreria Piccolomini e partecipa alla decorazione di una sala nel palazzo di Pandolfo Petrucci.

Giulio II lo richiama a Roma e gli commissiona la decorazione del soffitto del presbiterio di S. Maria del Popolo. È qui che dipinge l'Incoronazione di Maria, gli Evangelisti, Sibille, Padri della Chiesa. È questo uno dei suoi ultimi lavori. Bernardino di Betto Betti muore l'11 dicembre 1513 a Siena ed è sepolto nella parrocchia dei SS. Vincenzo e Anastasio.

Pinturicchio, il piccolo pittore - Video



Bernardino di Betto Betti, meglio conosciuto come Pinturicchio (altri lo chiamano Pintoricchio ma sono validi entrambi i nomi, derivati da “piccolo pintor” per via della minuta statura del personaggio), nacque a Perugia intorno al 1452. Allo stesso artista piacque tale appellativo, tanto che lo impiegò anche per firmare alcune sue opere. Insieme a Pietro Perugino ed al giovanissimo Raffaello Sanzio egli fu uno dei massimi esponenti della scuola umbra del tardo Quattrocento.
Qui un video con alcune delle sue opere.

Vaticano - l'appartamento Borgia

Papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia


Nel corpo quattrocentesco dei Palazzi Vaticani edificato sotto Niccolò V (1447-1455), papa Alessandro VI (1492-1503), al secolo Rodrigo Borgia, fece rinnovare e abbellire sei grandi stanze, create come residenza privata e della sua famiglia, dette anche "stanze segrete", aggiungendo anche una torre, che in seguito fu ribassata e trasformata.

La decorazione delle pareti venne affidata a Pinturicchio, che la portò a compimento in tempi rapidissimi, grazie ad un articolata ed efficiente equipe di aiuti. I lavori iniziarono intorno agli ultimi mesi del 1492 e furono portati a compimento nel 1494. Si trattò dell’incarico più impegnativo di tutta la carriera artistica del pittore, un progetto monumentale che poteva essere sminuito soltanto di fronte al ciclo della Cappella Sistina. Alla morte del pontefice, gli appartamenti furono abbandonati. Soltanto alla fine dell’Ottocento vennero riaperti al pubblico.
Lucrezia Borgia
Negli ambienti, oggi all’interno dei Musei Vaticani, ovunque risplendono stucchi, affreschi e l’immancabile toro dello stemma papale. Attualmente gran parte delle stanze sono destinate all’esposizione della Collezione d’Arte Religiosa Moderna, inaugurata da Paolo VI nel 1973. La Collezione comprende circa seicento opere di pittura, scultura e grafica, frutto di donazioni di artisti contemporanei italiani e stranieri: vi si trovano anche opere di Gauguin, Chagall, Klee e Kandinskij.
Pinturicchio dovette integrare – come gli si chiedeva, forse dettato dagli stessi intellettuali presso la corte papale – la strutturazione iconografica della dottrina cristiana con spunti di gusto archeologico in voga a quei tempi nella capitale. Il fine dell’intero ciclo è quello di delineare la storia della salvezza dell’Umanità attraverso la fede. Annio da Viterbo guidò teologicamente la mano dell’artista ispirandosi anche ai testi di Ovidio e Bocaccio.
Ritratto di Pinturicchio e Raffaello
I lavori interessarono cinque stanze concatenate, due all'interno della torre Borgia e le altre due esattamente al disotto dei primi tre ambienti dell'appartamento di Giulio II. La sequenza degli ambienti, a partire dalla sala delle Sibille, per procedere nella sala dei Profeti, delle Arti Liberali, dei Santi e dei Misteri, costituiva, secondo Saxl (storico dell'arte austriaco, 1890-1948), una sorta di percorso simbolico dal privato, identificato nelle prime due camere, poste nella torre, come turris guardarobae o camerae custodiae bonorum, verso il pubblico.

L'appartamento Borja è il più antico appartamento pontificio ancora esistente. 

Le stanze Borgia nel Vaticano

domenica 28 agosto 2016

Gregorio Allegri, Miserere



IL SEGRETO DELLA CAPPELLA SISTINA A CUI MOZART APRI' LE PORTE



Gregorio Allegri
Il Miserere (latino: "Abbi pietà") è una composizione acappella di Gregorio Allegri basata sul salmo 51 (50) della Bibbia, composto probabilmente intorno al 1630 durante il pontificato di Urbano VIII, da eseguire a luci spente nella Cappella Sistina durante il mattutino come parte del servizio delle tenebre della Settimana Santa.
L'opera, famosa per la sua bellezza e per il profondo senso mistico che suscitava negli ascoltatori, era circondata da un'aura di fascino ancor maggiore perché non poteva essere copiata o asportata: la leggenda voleva che i papi, perché tale segreto non fosse divulgato, avessero posto la scomunica come conseguenza della violazione di tale divieto. L'unico modo per udirla era presenziare alla Liturgia delle Tenebre nella Cappella Sistina.
Dunque molti viaggiatori, dopo aver ascoltato il brano, raccontarono della sua bellezza, ma nessuno ne possedeva lo spartito, che non poteva quindi essere eseguito altrove. Tre copie autorizzate vennero distribuite fuori dalla Cappella Sistina prima del 1770: una a Leopoldo I d'Asburgo, una al re del Portogallo e una a Giovanni Battista Martini (1706-1784. Erudito francescano e stimatissimo musicista di Bologna).
Mozart bambino
Nell'aprile 1770 il quattrodicenne Wolfgang Amadeus Mozart si trovava a Roma insieme al padre Leopold; Comunque, l'11 aprile a Roma Wolfgang ascoltò il mattutino del Giovedì Santo col Miserere e tornato a casa lo trascrisse grazie alla sua prodigiosa memoria. I due ritornarono dopo due giorni nella Cappella Sistina, dove il giovane, col manoscritto nascosto nel cappello, potè correggere i pochi errori che aveva fatto.
La cosa si riseppe in Roma e il papa, divertito dalla prodezza del giovane musicista, lo premiò decorandolo con lo Speron d'Oro.
Leopold Mozart, padre di Wolfgang, in una lettera ad Anna Maria Pertl (la madre di Mozart) del 14 aprile 1770 comunicò che: «A Roma si sente spesso parlare del famoso Miserere, tenuto in tanta considerazione che ai musicisti della cappella è stato proibito, sotto minaccia di scomunica, di portarne fuori anche una sola parte, copiarlo o darlo a chicchessia. Noi però l'abbiamo già, Wolfgang l'ha trascritto a memoria, e, se non fosse necessaria la nostra presenza al momento dell'esecuzione, noi l'avremmo già inviato a Salisburgo. Infatti la maniera di eseguirla conta più della composizione stessa, e quindi provvederemo noi stessi a portarla a casa.»
Leopold Mozart
Dopo la trascrizione di Mozart, la minaccia della scomunica venne tolta. Tempo dopo, Mozart incontrò il compositore inglese Charles Burney, il quale si fece dare la copia, la confrontò con la trascrizione che il papa aveva concesso a Giovanni Battista Martini e la portò a Londra, dove venne pubblicata nel 1771. L'edizione di Burney, tuttavia, non includeva la particolare ornamentazione rinascimentale non scritta, ma semplicemente tramandata da interprete a interprete nella Cappella Sistina, che rendeva il brano tanto lodato.
L'accuratezza nelle esecuzioni, che esisteva un tempo nella Sistina, era un requisito indispensabile per la perfetta riuscita del miserere. Di questo brano non si comprende l'effetto alla sola lettura per via della grande semplicità delle note, ma esisteva nella Cappella Sistina un'antica tradizione esecutiva che ne faceva risaltare i meriti, dandogli una sfumatura espressiva unica.
La famiglia Mozart
Molti artisti hanno musicato questo salmo penitenziale, ma l'opera di Allegri è probabilmente la più famosa, ed il suo fascino particolare deriva in parte dal suo stesso contenuto musicale, in parte dai misteri che ne avvolgono la storia. Probabilmente non abbiamo più l'originale: la versione comunemente nota oggi è piuttosto diversa da essa, contiene in particolare nella voce del soprano del secondo coro il Do sovracuto che Allegri non ha mai scritto.
La versione Top C (con il Do sovracuto), nella pur bizzarra elaborazione, ha comunque una bellezza che non lascia indifferenti, ed è diventato uno dei pezzi di musica sacra più popolari, anche se ha poco a che vedere non solo con quello che Allegri scrisse, ma neppure con ciò che fu mai cantato nella Cappella Sistina.
Bisogna segnalare che recentemente alcuni complessi musicali hanno recuperato – se non l'originale perduto – versioni filologicamente più aderenti allo scritto di Allegri.

Esecuzione del coro della Cappella Sistina durante la liturgia pasquale:

sabato 27 agosto 2016

L'Apoxyomenos Vaticano


Gli atleti usavano ungersi con olii prima di affrontare le gare; successivamente si detergevano con l’uso della sabbia e di una sorta di cucchiaio ricurvo, detto strigile (era uno strumento dell'epoca, di metallo, ferro o bronzo, che era usato solo dagli uomini e, principalmente, dagli atleti per pulirsi dalla polvere, dal sudore e dall'olio in eccesso). In quest'opera l’atleta è raffigurato mentre con lo strigile nella mano sinistra asporta la sabbia e l’olio dal braccio destro disteso. Infatti il termine Apoxyomenos (traslitterazione dal participio greco ἀποξυόμενος, "colui che si deterge") deriva dal verbo greco “detergere” e si riferisce a questa pratica in uso nell’antica Grecia.
La scultura, realizzata intorno alla metà del I secolo d.C. in marmo pentelico (un marmo bianco a grana fine), è una replica del capolavoro bronzeo eseguito da Lisippo nella sua maturità, intorno al 320 a.C. Si conoscono varie copie com varianti. L’artista greco è riuscito a rendere il movimento delle braccia, che con il loro forte slancio in avanti creano uno spazio chiuso e conferiscono profondità all’immagine.

La statua fu rinvenuta nel 1849 durante lo scavo di un edificio di età imperiale nella zona di Trastevere, nel vicolo delle Palme, che da quel ritrovamento, prese poi il nome di "vicolo dell'Atleta". L'opera venne esposta, quasi subito, nel Museo Pio-Clementino della Città del Vaticano.


Il galata morente e il galata suicida


Le opere oggi esposte ai Musei Capitolini (Galata morente) e al Museo Nazionale Romano (Galata suicida) sono la copia romana di un originale greco, forse bronzeo, commissionato per l’Acropoli di Pergamo da Attalo I che vinse nella guerra contro i Galati, nome con cui i Greci chiamavano i Celti. I galati (il termine in greco significa "barbari") erano popolazioni di origine celtica che emigrarono in Asia minore. I galati, intorno al 240 a.C., attaccarono la città di Pergamo, ma questa uscì vittoriosa dallo scontro, e celebrarono la vittoria con alcune opere d’arte.
Il perno centrale del monumento era rappresentato dal gruppo del galata che si suicida dopo aver ammazzato la moglie. Il gruppo è tutto incentrato sul contrasto tra l’elemento lineare, costituito dal galata che si suicida infilandosi la spada nel torace dall’alto, e le linee curve della moglie già deceduta. L’uomo vinto, raffigurato accasciato, presenta i tratti somatici e i baffi tipici delle popolazioni galliche. L’opera venne probabilmente ritrovata nel XVII secolo nel corso dei lavori per la Villa Ludovisi. Fu tra le opere che Napoleone portò a Parigi nel 1797, ma tornò dopo la caduta dell’impero nel 1815.
Il Galata ferito e morente indossa il tòrques, collare di metallo tipico delle popolazioni galliche, giace sul suo scudo. La sua posizione è "quasi" distesa, ma proprio in quel "quasi" si avverte tutta la drammaticità di chi sa di trovarsi a quel traguardo finale dal quale non si può far ritorno. La scultura è stata pensata essenzialmente per essere osservata frontalmente: il braccio destro esprime l'estremo tentativo dell'uomo, mortalmente ferito, di risollevarsi, mentre la testa è reclinata in un espressione di grande sforzo.
Il Galata suicida invece esprime un forte dinamismo ed è stato concepito per essere osservato in tutta la sua interezza: le gambe divaricate consentono l'equilibro della statua che si avvita su sè stessa con una forte torsione del busto. Con il braccio destro si trafigge nella zona delle clavicole, con quello sinistro sorregge la compagna che ha ormai abbandonato la vita terrena.

Non si conosce esattamente l'identità dell'artista che realizzò l'opera: si ritiene si tratti di Epigono, lo scultore di corte della dinastia dei sovrani di Pergamo.

Musei Vaticani - il Cortile Ottagono






Torso del Belvedere
Il Cortile Ottagono, in passato detto Cortile delle Statue, ospitò il primo nucleo delle collezioni pontificie di antichità classiche.
Alla fine del XV secolo l’area, collocata al centro del Palazzetto di Innocenzo VIII in Belvedere, aveva una forma quadrata e l’aspetto di un giardino con piante di aranci e fontane. Un ambiente in grado di accogliere il pontefice ed i suoi visitatori trasportandoli nel passato tra i giardini e le raccolte d'arte degli antichi. Le statue classiche, disposte lungo le pareti del cortile in cappelle o nicchie ravvivate da vivaci decorazioni vegetali, o abbandonate in apparente disordine tra le aiuole e le fontane, dovevano colpire l'immaginazione di ambasciatori e visitatori illustri e rasserenare il papa nelle sue passeggiate. Qui papa Giulio II Della Rovere (1503-1513) allestì una straordinaria raccolta di sculture antiche, che mirava a far rivivere la Roma dei Cesari nella Roma dei Papi.
Apoxyomenos
Nella seconda metà del Settecento i pontefici Clemente XIV e Pio VI decisero di trasformare la raccolta in un museo e il Cortile ne divenne il fulcro. Per proteggere le opere dalle intemperie e aumentare la superficie espositiva, l’area fu trasformata in un ottagono cinto da portici, secondo il progetto dell’architetto Michelangelo Simonetti.
I portici nord e sud sono inquadrati da colonne in granito grigio, quelli est ed ovest da colonne in granito rosa. Le sculture più importanti della raccolta sono conservate nei cosiddetti Gabinetti, posti in corrispondenza dei quattro angoli principali; all’inizio dell’Ottocento il Canova ne fece murare gli accessi frontali, di nuovo aperti nel 1957.

Tra le opere dell'antichità vi sono pezzi di valore inestimabile, come l'Apoxyomenos, unica replica conosciuta dell'originale bronzo di Lisippo; l'Apollo del Belvedere, copia romana d'epoca imperiale di un originale greco; o il celeberrimo Laocoonte. Altra opera che impressionò notevolmente gli artisti del '500, in particolare Michelangelo, è il famosissimo Torso del Belvedere.
Laocoonte

lunedì 22 agosto 2016

L'Hermes del Belvedere



Hermes era la divinità greca che i latini identificarono con Mercurio. Figlio di Zeus e di Maia, la più bella delle Pleiadi, è una delle divinità più famose dell'antichità. Era nato in una grotta del monte Cillene, in Arcadia. Col tempo divenne il protettore dei viaggiatori, dei mercanti e del commercio (poichè i commercianti dovevano viaggiare) onesto e disonesto e da qui la sua fama di protettore dei ladri. Dato che i mercanti devono parlare molto, da qui Hermes venne anche definito il dio dell'eloquenza e messaggero degli dei. Dato che era un dio che per assolvere i suoi compiti doveva viaggiare molto, ecco che diventa anche il protettore degli atleti. 
Ma i suoi compiti non si esaurivano qui, la notte infatti quando gli uomini e gli dei non avevano bisogno dei suoi servigi, diveniva anche il dio che scortava le ombre dei defunti alla nuova dimora. Come messaggero di Zeus aveva anche il compito di portare i sogni agli uomini in quanto si credeva che fossero mandati da Zeus.
La statua che si trova nel Museo Pio Clementino, dei Musei Vaticani, fu acquistata da Paolo III (1534-1549) per decorare una nicchia del Cortile delle Statue nel Belvedere. L'opera era stata rinvenuta intorno al 1540 nei giardini circostanti il Mausoleo di Adriano, oggi Castel Sant’Angelo, e per questo fu a lungo ritenuta una raffigurazione di Antinoo. 
La scultura, di età adrianea, rappresenta Hermes nella sua funzione di psicopompo, ossia accompagnatore dei defunti nel cammino verso l’Oltretomba. La divinità è colta nell’attesa del defunto, in atteggiamento mesto con lo sguardo rivolto in basso; il mantello da viaggio è gettato sulla spalla e ripiegato sull’avambraccio. Il tipo iconografico (Andros-Farnese) è ben noto e si ispira a creazioni bronzee della scuola di Prassitele.
L'opera divenne subito famosa in qualità di "Antinous Admirandus", menzionato in tutte le liste di scultura romana da andar sicuramente a vedere a Roma, inciso e rappresentato in tutti i repertori dell'arte classica, universalmente ammirato e successivamente copiato in bronzo e marmo.

sabato 20 agosto 2016

Perseo di Canova, il trionfo di Medusa



Perseo è figlio di Zeus (Giove) e della mortale Danae al cui padre, Acrisio re di Argo, l’oracolo ha profetizzato una morte per mano del nipote. Acrisio rinchiude, così, la figlia Danae in una torre inaccessibile, ma Giove, innamoratosene, riesce a unirsi a lei in forma di pioggia d’oro. Acrisio, dopo la nascita di Perseo, fa gettare il bimbo e la madre in mare dentro una cassa d’oro, ma i due, protetti dalla divinità, riescono a salvarsi e approdano nell’Isola di Serifo dove sono accolti dal pescatore Ditti, fratello del re Polidette.




A Serifo, Danae è bramata da Polidette che, per allontanare per un po’ Perseo divenuto ragazzo, gli ordina di riportargli la testa di Medusa, una delle Gorgoni dallo sguardo che pietrifica. Il giovane accetta la prova e sotto la guida di Atena (Minerva nella mitologia romana) si reca dalle Graie, mitiche sorelle delle Gorgoni, costringendole a rivelargli dove si nascondono le Ninfe, le uniche in grado di aiutarlo a sconfiggere Medusa. Dalle Ninfe ottiene un paio di sandali alati, una bisaccia magica e un elmo che rende invisibili.
Giunto finalmente dalle Gorgoni, Perseo le trova addormentate e, senza guardare direttamente Medusa ma fissandone l’immagine riflessa sullo scudo donatogli da Atena, riesce a tagliarle la testa senza essere pietrificato. Dal sangue di Medusa nasce Pegaso, un cavallo alato che aiuta Perseo a sfuggire dall’inseguimento delle altre due Gorgoni e che lo accompagna in altre numerose e mirabolanti avventure.



L'opera presente nel cortile ottagono dei Musei Vaticani fu scolpita da Antonio Canova (1757-1822) nel giro di pochi mesi, tra la fine dell’anno 1800 e i primi mesi del 1801. Promesso al tribuno Onorato Duveyriez, primo proprietario dell’opera, il Perseo fu ceduto alla Repubblica Cisalpina per il nuovo Foro Bonaparte di Milano. In seguito la statua fu acquistata dal pontefice Pio VII e posta sul piedistallo dell’Apollo del Belvedere, che era stato trasportato in Francia a seguito del Trattato di Tolentino fino al 1815. A questa celebre statua si ispira il Perseo per ponderazione, proporzioni e analoga carica espressiva. L'opera rappresenta Perseo trionfante dopo aver tagliato la testa di Medusa, una delle tre Gorgoni. L’eroe ha la spada in una mano e la testa recisa di Medusa nell’altra, l’elmo donatogli da Plutone sul capo, i sandali alati di Mercurio ai piedi ed è munito di un copricapo provvisto di ali, a metà tra il berretto frigio e l’elmo di Ade. Egli non avrebbe dovuto guardare negli occhi il mostro, ma proprio perché l'ha fatto viene pietrificato e diventa una statua. Secondo la stessa leggenda quindi l'opera sarebbe il vero corpo di Perseo, pietrificato.
 



giovedì 18 agosto 2016

MUSEI VATICANI Apollo del Belvedere


Apollo era il dio greco protettore di tutte le arti, della medicina, della musica e della profezia. Era adorato come dio oracolare, capace di svelare attraverso le sue doti predittive, il futuro degli uomini. In tarda antichità, fu indicato anche come dio del sole, soppiantando Helios nelle sue "funzioni" di "portatore delle luce". Apollo e' il figlio illegittimo di Zeus e Leto (protettrice della tecnologia).
L'"Apollo del Belvedere" è chiamato così perché rimasto esposto per molto tempo nel Cortile del Belvedere in Vaticano.
La statua fu ritrovata ad Anzio verso la fine del XV secolo, durante il Rinascimento e faceva parte della collezione che il Cardinale Giuliano della Rovere possedeva nel suo palazzo di piazza SS. Apostoli. Divenuto papa con il nome di Giulio II (1503-1513), la scultura fu trasferita in Vaticano, dove è attestata almeno fin dal 1508.

L’opera, databile entro la metà del II secolo d.C., è oggi considerata la replica di un bronzo eseguito tra il 330 e il 320 a.C. da Leochares, uno degli artisti che lavorarono al Mausoleo di Alicarnasso. Il dio Apollo incede regale e sembra aver appena vibrato un colpo con il suo arco che, originariamente, doveva impugnare con la mano sinistra. Molto ammirata fin dalla sua collocazione nel Cortile delle Statue, deve la sua consacrazione alle ispirate pagine di Johann Joachim Winckelmann che al tempo la considerava una sublime espressione dell’arte greca, «il più alto ideale dell’arte tra le opere antiche che si sono conservate fino a noi».
A partire dalla metà del XVIII secolo, venne considerata come uno dei supremi capolavori dell'arte mondiale, nonché come modello assoluto di perfezione estetica.

mercoledì 17 agosto 2016

Antinoo-Osiride: il testamento d'amore di Adriano


Antinoo-Osiride, Musei Vaticani
Il giovane Antinoo arrivò a Roma intorno al 125 d.C. al seguito di Adriano che lo aveva conosciuto probabilmente nel 123, durante una sosta del suo lungo viaggio entro i confini dell’Impero, durato due anni.
Il favorito di Adriano restò al fianco dell’imperatore, seguendolo anche nei viaggi ufficiali, come quello intrapreso nel 128 che si concluderà tragicamente con la morte del giovane nel 130 d.C.. Sappiamo infatti dalle fonti antiche che durante la spedizione, risalendo il corso del Nilo, Antinoo annegò misteriosamente nel fiume. Dopo la sua morte, Adriano lo divinizzò e fondò un culto organizzato dedicato alla sua persona, che si diffuse presto a macchia d'olio in tutto l'Impero; poi, sempre per commemorare il proprio diletto, fondò la città di Antinopoli, fatta sorgere vicino al luogo dove il giovinetto aveva trovato la sua fine terrena prematura e che divenne un centro di culto per l'adorazione del "dio Antinoo" in forma di Osiride. Adriano istituì anche giochi in commemorazione del ragazzo, che si tenevano in contemporanea ad Antinopoli e ad Atene, con Antinoo divenuto simbolo dei sogni panellenici dell'imperatore.
Circa un centinaio di immagini del giovane sono oggi note agli archeologi, che le hanno classificate in differenti tipologie. Il modello iconografico del nostro esemplare è quello dell’Osiride-Antinoo, il dio che muore e che rinasce, a sua volta già associato dai Tolomei a Serapide, divinità della salvezza alessandrina. La statua fu rinvenuta nel 1739 presso la Villa Adriana a Tivoli e fu donata a Benedetto XIV nel 1742 e fu collocata nel Museo Capitolino. Gregorio XVI la fece trasferire nel 1838 all’interno del nuovo Museo Egizio.
La figura del bel giovane appare in moltissime opere letterarie e poetiche, a cominciare da quelle di Oscar Wilde, Fernando Pessoa e Marguerite Yourcenar.
Antinoo come Bacco, dettaglio