Le
opere oggi esposte ai Musei Capitolini (Galata morente) e al Museo
Nazionale Romano (Galata suicida) sono la copia romana di un
originale greco, forse bronzeo, commissionato per l’Acropoli di
Pergamo da Attalo I che vinse nella guerra contro i Galati, nome con
cui i Greci chiamavano i Celti. I galati (il termine in greco
significa "barbari") erano popolazioni di origine celtica
che emigrarono in Asia minore. I galati, intorno al 240 a.C.,
attaccarono la città di Pergamo, ma questa uscì vittoriosa dallo
scontro, e celebrarono la vittoria con alcune opere d’arte.
Il
perno centrale del monumento era rappresentato dal gruppo del galata
che si suicida dopo aver ammazzato la moglie. Il gruppo è tutto
incentrato sul contrasto tra l’elemento lineare, costituito dal
galata che si suicida infilandosi la spada nel torace dall’alto, e
le linee curve della moglie già deceduta. L’uomo vinto,
raffigurato accasciato, presenta i tratti somatici e i baffi tipici
delle popolazioni galliche. L’opera venne probabilmente ritrovata
nel XVII secolo nel corso dei lavori per la Villa Ludovisi. Fu tra le
opere che Napoleone portò a Parigi nel 1797, ma tornò dopo la
caduta dell’impero nel 1815.
Il
Galata ferito e morente indossa il tòrques, collare di metallo
tipico delle popolazioni galliche, giace sul suo scudo. La sua
posizione è "quasi" distesa, ma proprio in quel "quasi"
si avverte tutta la drammaticità di chi sa di trovarsi a quel
traguardo finale dal quale non si può far ritorno. La scultura è
stata pensata essenzialmente per essere osservata frontalmente: il
braccio destro esprime l'estremo tentativo dell'uomo, mortalmente
ferito, di risollevarsi, mentre la testa è reclinata in un
espressione di grande sforzo.
Il
Galata suicida invece esprime un forte dinamismo ed è stato
concepito per essere osservato in tutta la sua interezza: le gambe
divaricate consentono l'equilibro della statua che si avvita su sè
stessa con una forte torsione del busto. Con il braccio destro si
trafigge nella zona delle clavicole, con quello sinistro sorregge la
compagna che ha ormai abbandonato la vita terrena.
Non
si conosce esattamente l'identità dell'artista che realizzò
l'opera: si ritiene si tratti di Epigono, lo scultore di corte della
dinastia dei sovrani di Pergamo.